In tutto il mondo stanno sofffiando venti bellicosi. Bisogna fermarsi e riflettere alla luce della storia
Non ci sono mai state una buona guerra o una cattiva pace (*)
A volte con il dialogo e la reciproca conoscenza, le incomprensioni e le diffidenze si sciolgono come neve al sole. Basta avere fiducia nel prossimo vedendolo non come un soggetto da sfruttare, ma come una persona da rispettare. L’Occidente, non sembra sensibile a questo approccio e non vuole dividere la sua ricchezza con il resto del mondo, dove la povertà, la fame e le malattie spingono intere popolazioni verso bibliche migrazioni e alimentano il terrorismo. Per evitare ogni violenza occorre sensibilizzare la gente sul tema della giustizia sociale, creando tra le varie associazioni del volontariato una Consulta per la Pace
“Se tutti si battessero soltanto secondo le proprie opinioni, la guerra non si farebbe mai”, disse il principe Andrea. “E questa sarebbe una bellissima cosa”, rispose Pierre. Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e Pace. Nell’unirmi al dolore delle famiglie che hanno perso i loro cari in modo così tragico, l’ultimo episodio di inaudita violenza che ha pesantemente coinvolto la nostra forza di pace impegnata a Nassiriya, mi ha spinge, sia come privato cittadino, sia nella mia qualità di ex consigliere comunale di Novi Ligure, a riprendere momentaneamente l’attività pubblica proponendo a tutte le associazioni del volontariato di collegarsi tra loro in una “Consulta permanente per la Pace”, perché, parafrasando una celebre frase di Benjamin Franklin, ogni guerra è cattiva, ma soprattutto è evitabile, come la storia ci insegna con le sue analogie e come qui di seguito, proprio per tali analogie, brevemente ricordo, anche per contribuire a contenere una montante retorica che, se protratta nel tempo, potrebbe travisare la realtà delle cose. *** Il 28 giugno 1914 l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e sua moglie sono uccisi a Sarajevo da uno studente bosniaco. L’Austria, sostenuta da una forte indignazione popolare, lancia un ultimatum alla Serbia, la quale accetta tutte le condizioni in esso contenute esclusa quella relativa ad un’intromissione dei funzionari imperiali nelle indagini sull’attentato. Un tale consenso avrebbe rappresentato per la Serbia una grave limitazione alla sua sovranità e questo rifiuto diventa il casus belli che, con la prima guerra mondiale, incendierà l’Europa e il mondo. Di fronte alle terribili distruzioni di quel conflitto, che tra i ventisette Paesi coinvolti lascia sul campo più di dieci milioni di morti, ancora a cannoni tuonanti, l’8 gennaio 1918, il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, lancia l’idea di un organismo internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale. Nasce così, il 29 aprile 1919, la Società delle Nazioni, la quale, per i mortificanti obblighi imposti dalle potenze vincitrici agli imperi centrali, non riesce ad avviare l’auspicata “cooperazione tra le nazioni”. Le pesanti condizioni della “pace punitiva”, siglata a Parigi il 18 gennaio 1919, favoriscono, infatti, l’affermazione dei nascenti nazionalismi e portano all’esplosione dell’ancor più devastante seconda guerra mondiale sulle cui fumanti macerie, il 26 giugno 1945, a San Francisco prende vita l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Anche questo organismo - che il 24 ottobre 1945 vara la Carta delle Nazioni e costituisce diverse agenzie autonome (l’Oms, la Fao, l’Unicef, l’Unesco, il Bit, ecc…) per operare nei più diversi campi da quello sociale a quello assistenziale ed economico - si rivela uno strumento inadeguato non riuscendo a far tacere le armi e a risollevare le sorti delle aree più depresse del globo. Dal 1945 ad oggi, infatti, oltre ai conflitti più evidenti, come quello del Viet-Nam, scoppiano, nei più diversi luoghi, un centinaio di guerre, molte delle quali sottaciute, che producono la morte diretta di oltre venti milioni d’esseri umani! “Più che una fine della guerra, vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre” diceva Franklin D. Roosevelt nel suo messaggio radiofonico del 13 aprile 1945 in occasione del Jefferson Day, ma mai altre parole come quelle sono cadute nel vuoto più assoluto nella seconda metà del Novecento. E questo perché l’O.N.U., pur rappresentando in modo formale un tavolo permanente d’incontro tra i diversi Stati, è schiacciato da una politica internazionale bilanciata sulle “sfere d’influenza” sancite dalla conferenza di Yalta del 4/11 febbraio 1945. Solo dopo il 9 novembre 1989, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, l’O.N.U. sembra poter acquisire una sostanziale autorevolezza, ma, quasi per un avverarsi della profezia di Tocqueville, il quale ipotizzava un futuro dominato dall’Occidente, il ruolo del gendarme del mondo viene rivestito, non si capisce bene a quale titolo, dagli Stati Uniti, l’unica grande potenza militare rimasta sullo scacchiere mondiale. Oggi, dopo l’attentato alle Twin Towers, stiamo per ripercorrere gli stessi passi che quasi un secolo fa incendiarono il mondo? Pare proprio di sì perché sulla cronaca odierna la parola guerra è sempre più ricorrente. E allora, di fronte allo specchio della storia, in contrapposizione ad essa quale senso è possibile dare alla parola pace, com’è possibile definirne il concetto e con quali strumenti è pensabile perseguirla? Nel modo classico la pax romana, elaborata sotto l’emergenza delle invasioni barbariche, è frutto e sinonimo di sicurezza politica, mentre nel medioevo si identifica con il principio della guerra giusta teorizzato da Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae, anche se in quell’epoca non mancano modelli diversi, come quello additato da Francesco d’Assisi il quale, nel pieno di una crociata, incontrandosi con il sultano Melik mostra un’alternativa di pace e di dialogo con il mondo musulmano. Dopo l’epoca delle Crociate, e a far data dalla Battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495 - che inaugura la guerra moderna dove, nello scontro tra l’esercito di Carlo VIII e Francesco II di Gonzaga, cadono circa tremila uomini - inizia a farsi strada, con la formazione dei grandi stati nazionali, il principio di competenza, trasferendo il concetto di pace dal campo teologico a quello della politica e del diritto dello Stato, al quale viene delegata la decisione sulle guerre le quali, all’insegna di un riscoperto Aristotele che, nell’Etica nicomachea, citava “Facciamo la guerra per vivere in pace”, sono finalizzate ad ampliare e consolidare i confini e per la difesa preventiva. Ai giorni nostri, al principio di pace basato sulla guerra di espansione e preventiva si è venuto a sovrapporre quello della non violenza anticipato da Tolstoj e fatto proprio da Gandhi. In Italia questa teoria, la satyagraha, è divulgata da Aldo Capitini il quale fonda il Movimento non Violento per la Pace, proseguendo l’opera di Don Milani che si era spinto in una visione della società nella quale individuava una sola grande frattura tra gli uomini: quella che da un lato vede i diseredati e gli oppressi e dall’altro i privilegiati e gli oppressori. Ed è proprio su questa frattura che in tempi più recenti il concetto di pace viene ad incentrarsi sul primato della persona. Un primato della persona che ai fini della pace è messo in risalto da Giorgio La Pira il quale, rifacendosi a E. Mounier e Jacques Maritain (l’Umanesimo integrale), sottolinea la funzione dell’educazione come leva per un diverso ordine nel quale la pace diventa una questione morale, politica, economica e sociale. Un concetto di pace inteso, quindi, non tanto come assenza di violenza per presenza del diritto, quanto come un interiore sentimento di rifiuto della violenza. Uno stato mentale dunque, richiamato anche da John K. Galbraith quando, ne “La città opulenta”, scrive: “Se vogliamo conquistare pace e sopravvivenza, quasi sicuramente la ricerca dovrà spingersi più in là dello sforzo di trovare un equilibrio nel terrore termonucleare”. Questo sentimento oggi sembra prevalere soprattutto in qui Paesi che nel secolo scorso sono stati testimoni degli orrori delle guerre, come la Germania, che nel solo bombardamento di Dresda (13/14 febbraio 1945) contò centomila morti, o la Francia, spettatrice dell’imponente “Operazione Overland”, lo sbarco in Normandia del 5/6giugno 1944 al quale parteciparono più di un milione e mezzo di soldati degli eserciti alleati, o il Giappone, che si vide, con l’ecatombe delle prime due bombe atomiche, rase al suolo le città di Hiroshima (6 agosto 1945), sotto le cui macerie morirono oltre novantamila persone, e Nagasaki (9 agosto 1946). È dalla lezione della storia, pertanto, che deve scaturire il concetto della pace, ma è dal sentimento delle persone che questo concetto deve trovare la forza per affermarsi. Oggi, infatti, di fronte al fallimento degli organismi sopranazionali, per dare gambe al concetto di pace non rimane che il sentimento interiore della gente, il quale, sotto la spinta di nuovi valori post-materialisti, si manifesta con l’educazione alla non violenza. Il mondo delle Istituzioni, però, per la pressione degli interessi ai quali è esposto, stenta a percorrere questo sentiero sul quale, invece, deve essere tenacemente sospinto da una forte partecipazione politica dal basso che solo nel Volontariato è possibile trovare. *** Ecco perché, memore della nostra storia passata, ritengo necessario, ora più che mai, avviare in termini organici una collaborazione tra l’Associazionismo e le Istituzioni e dar vita - anche nella nostra città - ad un organismo spontaneo di base, una “Consulta permanente per la Pace”, che sappia far giungere ai piani alti della politica il sentimento delle persone e della nostra comunità. Il tutto affinché gli Stati si adoperino per favorire, attraverso un O.N.U. rinnovato e riformato, la cooperazione internazionale dove il potere coercitivo sia usato solo come deterrente e non come strumento d’offesa e d’imposizione. Ed a tale scopo, anche per onorare meglio i caduti, con questo articolo suggerisco al Sindaco di Novi Ligure (inteso come comune centro-zona) la convocazione di un Consiglio Comunale aperto dove discutere, riflettere e confrontarci. Gian Battista Cassulo Novi ligure, lì 19 novembre 2003
*(Il titolo dell’articolo è tratto da una frase di Benjamin Franklin, Lettere a Quincy, 11 settembre 1772).
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